Mi chiamo Bice Zumbo e sono il presidente di AIGP. Ho 56 anni e ho il Parkinson. Mi stanco facilmente, in certe ore del giorno sono molto lenta, talvolta ho la faccia un po’ troppo seria, un po’ inespressiva: è uno dei tanti fastidi del Parkinson.
Quando saputo che ero malata, quattro anni fa per lungo tempo ho fatto finta di non avere nulla: facevo i controlli, prendevo le pillole, curavo i miei figli, nessuno al lavoro sapeva che cosa mi stava succedendo. Ma man mano che il tempo passava, nasceva in me la consapevolezza di un problema complessivo e cominciavo a pensare che il mio problema non fosse solo un mio problema, che non si trattasse solo dei miei neuroni e della mia dopamina. Non era la mano destra che mi diventava molle e mi impediva di afferrare la monetina nel borsellino, a farmi soffrire. Era la signora nella coda alle mie spalle che sbuffava e pensava che fossi ubriaca che mi faceva stare male.
La gente perlopiù non sa che il Parkinson non viene solo alle persone anziane. Così ho capito che il Parkinson non era un problema che potevo risolvere da sola.
I malati di Parkinson sotto i 50 sono tra il 5 e il 10 % del numero complessivo dei parkinsoniani. Sono ancora persone attive lavorativamente e spesso in famiglia ricoprono un ruolo centrale di sostegno. Da loro dipendono economicamente e affettivamente anziani e minori. Prima o più tardi dovranno abbandonare questa posizione centrale e avranno bisogno di sostegno a loro volta.
L’Associazione Italiana Giovani Parkinsoniani è stata creata 10 anni fa da un gruppo di amici che hanno cominciato ad aiutarsi a vicenda. Convegni, marce, gruppi di auto aiuto, attività sportive adattate poi comitati nazionali, collaborazioni con la classe medica….
Nella sostanza, abbiamo cercato di renderci la vita più leggera stando vicino gli unici agli altri e seminando conoscenze e consapevolezza nella comunità in cui viviamo. L'altra notte ho fatto un sogno: assieme ad un'altra socia dell'associazione stavo arredando un locale accogliente e un po' buio che era la nostra sede. Il posto aveva un'aria vagamente anni 70, nell'aria si spargeva un profumo di Patchouli, stoffe decorate con le gocce di Cachemire coprivano divani un po' malandati. Mi sono svegliata sorridendo del mio inconscio fermo a quegli anni lontani. Il sogno però metteva in luce una indicazione chiara rispetto al futuro: avevamo bisogno di un posto che potessimo sentire nostro, dove accogliere gli altri pazienti che ci venivano a trovare, magari per la prima volta, magari a qualche mese dalla prima diagnosi, ancora storditi dal trauma della notizia.
Insomma ci serviva una sede e ho pensato che tutti voi siete le persone giuste a cui chiedere aiuto. In tutti questi anni ci siamo trovati in “luoghi di fortuna”: dalle case private, ai reparti ospedalieri, ai parchi cittadini. Vi dico solo che la nostra attuale sede è in un edificio scrostato che il Comune ci mette disposizione, in condivisione con altre associazioni, situato al secondo piano senza ascensore. Nel contempo siamo cresciuti, abbiamo capito che non basta più un approccio familiare, io lo chiamo “da cucina” perché spesso è attorno al tavolo di una cucina che si svolgono nostre riunioni, ad un approccio maggiormente organizzato e professionale, dobbiamo darci gli strumenti per accogliere molti più soci e offrire loro attività strutturate in un ambiente accogliente e che crei appartenenza.
Abbiamo bisogno di una sede che ci accolga, dove possiamo incontrarci, informarci, consolarci l’un l’altro, ridere, fare fisioterapia, ballare. Nessun malato deve rimanere solo, nessuna famiglia che cura un malato può farlo da sola. Avremmo bisogno che chi non è malato ci stesse accanto, ci servirebbero manager che ci mettessero a disposizione la loro professionalità, commercialisti che facessero i conti, uomini e donne di buona volontà che facciano la spesa o portino ai controlli i malati che il caregiver non ce l’hanno.
Ma soprattutto abbiamo bisogno di un posto dove stare.
Il Parkinson è una malattia dura da affrontare, è misteriosa, è progressiva e ti consuma a poco a poco. Però come tutte le esperienze della vita davvero difficili ci può aiutare ad essere persone migliori, più aperte agli altri, più felici di vivere, più disposte a farsi aiutare e più disposte ad aiutare. Sapete a volte il parkinsoniano giovane si sente come quei velisti che attraversano l’oceano Pacifico in solitaria. Ma se ci state attenti, vi sarà capitato, e il teleoperatore posta più in alto la telecamera si vede la nave appoggio e talvolta i gommoni che le girano intorno e magari anche un elicottero con la sorvola. Ecco noi vi chiediamo di starci accanto, di aiutarci, di sostenerci con la vostra presenza e per prima cosa darci la possibilità di sfruttare degli spazi adeguati che magari non vi servono. Se un giorno vorrete venire a trovarci di promettiamo che li trasformeremo in un luogo accogliente, aperto e buono per tutti.