LA RESILIENZA: quale aiuto nella malattia di Parkinson
Dr.ssa Francesca Mameli
Neuropsicologa e psicoterapeuta - Servizio di Neuropsicologia e Psicologia Clinica per i Disordini del Movimento - Fondazione IRCCS Cà Granda-Ospedale Maggiore Policlinico di Milano
Già Ippocrate, considerato il padre della medicina, ci insegnava che “…la cosa più importante non è tanto sapere che malattia ha quel paziente ma chi è quel paziente che ha quella malattia”. Si osserva frequentemente infatti che, sebbene una patologia possa esprimersi in maniera simile in una popolazione, differenti possono essere i modi in cui la persona riesce a fronteggiarla psicologicamente.
Da dove origina tale differenza? Studi recenti si focalizzano sul ruolo della resilienza per rispondere a questa domanda.
La resilienza è un costrutto trasversale a molti ambiti e quello psicologico è solo uno dei più recenti. In questo ambito si fa riferimento alla capacità di un individuo di resistere, fronteggiare e riorganizzare positivamente la propria vita dopo un evento negativo. Non si tratta di una resistenza passiva bensì di una risposta cosciente, di una ricostruzione che si traduce in potenzialità e prospettive di crescita. Tale capacità è composta da una costellazione di tratti che includono fattori cognitivi (come l’intelligenza, l’ottimismo e la creatività) e fattori sociali (come il supporto percepito e la relazione con il proprio ambiente sociale).
Essendo la malattia un evento indubbiamente a forte impatto negativo per la persona, il concetto di resilienza è risultato essere un fattore chiave per comprendere la grande eterogeneità nella capacità di fronteggiare le criticità a cui essa espone.
Proviamo ad immaginare, quale incidente critico, quello di una malattia cronica come il Parkinson che, proprio per la sua natura progressiva, richiede un compito di adattamento continuo.
Sebbene questo tratto sia stato indagato in diverse patologie croniche, scarsa è la letteratura dedicata ad esaminarne il fenomeno nella malattia di Parkinson. I dati preliminari però mostrano risultati interessanti che evidenziano come “essere resilienti” comporti una minore disabilità percepita, una migliore qualità di vita ed una riduzione dei sintomi psicologici (minore apatia, ansia e depressione). Dato non trascurabile è che la resilienza non appare collegata alla severità dei sintomi. Questo significa che, a prescindere dalle condizioni cliniche e dalle limitazioni imposte dalla malattia, le persone più resilienti subiscono un impatto decisamente inferiore sulla qualità della vita e sulla sofferenza fisica e psicologica.
Se essere resilienti rappresenta un vantaggio per affrontare efficacemente la malattia diventa estremamente utile poter promuoverne lo sviluppo nelle persone che ne sono meno dotate.
A questo proposito gli studi disponibili sono incoraggianti ed evidenziano che si può “imparare” ad essere resilienti attraverso il supporto psicologico, la psicoterapia e le relazioni con il proprio ambiente sociale.
In considerazione dei dati descritti appare evidente per i curanti la necessità di indagare e raccogliere quanto il paziente articola intorno alla sua malattia per proporre interventi adeguati, centrati sulla persona e non solo sulla patologia.
[Pubblicato su Ricerca in Movimento - GIORNALE LIMPE/DISMOV-SIN nr. 2/2019]