Lo so che non sta bene parlare di morte, è considerato sempre fuori luogo e di cattivo gusto.
Però soprattutto di questi tempi, mentre le immagini della colonna di feretri che si mette in moto lentamente scorrono sul video, anche se non lo facciamo vedere, alla morte pensiamo-se un raffreddore ci manda in crisi per settimane ostacolando l’assorbimento dei medicinali, figurarsi cosa potrebbe farci un’ infezione da coronavirus!-.
Siamo malati di una malattia neurodegenerativa, ma di morte e di paura non parliamo quasi mai, neppure tra di noi.
Eppure ciascuno di noi conosce la fatica di far convivere dentro di sè parti vive e vitali, desiderose solo di continuare a vivere e parti morte, cellule necrotiche che non danno più impulso a muscoli, ghiandole e sinapsi. E questo sempre, che ci si abbassi la pressione o il livello della dopamina e ci sentiamo quasi morire, o che stiamo camminando in un meraviglioso sentiero di montagna con un gruppo di amici.
E’ l’ultima maschera che in qualche maniera la società e noi stessi ci obblighiamo ad indossare: dopo il malato “organo” e non individuo, dopo il paziente succube e silenzio dinanzi al medico onnisciente, dopo il malato collaborante, ultimo della serie, il “paziente esperto” che sa tutto di Advocacy e Decreti legge, arriva il paziente ottimista e positivo, il famoso Resiliente.
Vuol solo sentir parlare di sport estremi e di improvvisa vocazione alla pittura o alla scrittura creativa, scoperte dopo qualche tempo dalla diagnosi. E’ il paziente parkinsoniano “giovane” a cui le cure palliative non interessano, il caregiver non serve perché-io sono il caregiver di me stesso-e che, ovviamente, non vuole assolutamente sentir parlare di morte.
“Non sarai mica depresso? Vai dal tuo neurologo a farti aggiustare la cura!” E poi lo sanno tutti che “di Parkinson non si muore!”.
“La mia morte” (Tempesta Editore, 2019) comincia come un romanzo: il signor G. (Avvocato G., prego!) -è un uomo antipatico e, almeno fino a un certo punto della sua vita, se ne compiace. Aspira alla perfezione, l’obiettivo è sempre puntato su sè stesso, vive a passo di carica travolgendo le persone che gli stanno accanto. È “duro di cuore, egoista, presuntuoso, insensibile e forse anche un po’ stupido”. Brillante, colto, di bell’aspetto, ci fa subito innervosire. Finché Il Parkinson non lo ferma e non lo costringe, a colpi di frusta, a riflettere, a soffrire, a fare i conti con i sentimenti veri, a rendersi conto che esistono gli altri.
Alzi la mano chi non sta pensando: “questa storia l’ho già sentita!”. Molti di noi l’hanno provata sulla loro pelle: l’onnipotenza logora chi ce l’ha e quando ce ne accorgiamo, tra macerie fumanti di matrimoni finiti e delusioni di tutti I generi, anche aree più o meno vaste della nostra substantia nigra si sono insensibilmente fulminate.
“La mia morte” continua come un’autobiografia. La Scienza non l’ha ancora provato ma che il parkinsoniano medio tenda ad avere una personalità premorbosa rigida, perfezionista e iper controllata è di dominio comune.
Come tutti noi sappiamo, perché l’abbiamo provato e forse ci siamo ancora in mezzo, è risaputo che ogni parkinsoniano passa nell’elaborazione della sua malattia attraverso fasi abbastanza tipiche e definibili che vanno dalla negazione, (con diniego della sintomatologia) all’ipomaniacalità (buttarsi a capofitto in attività sfrenate e al di sopra delle proprie possibilità) alla depressione (isolamento sociale e apatia) e finalmente all’adattamento che, tuttavia, essendo il Parkinson una malattia degenerativa non è mai definitivo ma richiede continuamente uno sforzo di elaborazione costante e defatigante.
Il racconto dell’Avvocato G. tuttavia non è incasellabile in quella vasta letteratura autobiografica che caratterizza, a volte ammorba -Ops!- il mondo Parkinson: storie più o meno tutte uguali che descrivono i canonici sussulti delle anime dei malati, ne rivelano le epifanie e le intuizioni e di solito finiscono con un lieto fine dolceamaro dove si parla di resilienza e di voglia di vivere.
Non che queste ultime due qualità manchino all’autore/protagonista del libro che anzi, fino all’ultimo, mostra, giustamente, di non essersi rassegnato all’immagine che il mondo esterno gli rimanda di sè stesso: infantilizzato da un “tu” fuori luogo, misconosciuto nei propri desideri sessuali dal badante invadente che non lo lascia solo con una vecchia fiamma, violato intimamente dalla sicumera del prete che lo viene a trovare e tenta di catechizzarlo quando ormai non può più reagire.
“La mia morte” è un libro da leggere, appassionante e coinvolgente come un romanzo, profondamente vero e nello stesso tempo idealizzato come un’autobiografia. Ti prende e ti conduce velocemente, giacché si legge tutto d’un fiato, ad un finale assolutamente non scontato e si rivela non solo un romanzo e un’autobiografia ma soprattutto una sorta di pamphlet. L’autore si spinge nei territori inesplorati- giacché da quanto mi risulta, nessuna delle grandi pagine di letteratura ambientate sul letto di morte è stata scritta dall’interessato!-del severo decadimento fisico, della mancanza di controllo sui propri movimenti, sulle proprie funzioni vitali e sulle decisioni che coinvolgono la propria vita. Del dolore e soprattutto della paura del dolore, lo sconcerto per l’insondabilità della morte.
“La mia morte” è difesa accorata del diritto-e forse anche dovere- non già di morire quando lo si decide, ma di vivere fino all’ultimo minuto potendo continuare ad essere se stessi, morire come speriamo di aver vissuto, nonostante tutto: serenamente e con dolcezza.
L’avvocato G. riesce a coronare il desiderio che ciascun uomo ha di essere uomo fino alla fine, di poter riconoscere, quando arriva il momento, che ne abbastanza di soffrire e che non può tollerare oltre, di voler e poter decidere quando è arrivato il limite.
L’eutanasia è in quest’ottica l’ultimo atto della vera resilienza.
Ho voluto presentarvi questo libro perchè credo che come malati di Parkinson e come malati ancora giovani e relativamente in buona salute abbiamo il dovere di guardare senza paura al futuro e di iniziare a “programmare” la nostra malattia.(Devo l'espressione felice e creativamente paradossale all'amico Andrea Tagliabue)
Potremmo forse essere relativamente fortunati e arricchire il nostro carnet di comorbilità fulminanti, che ci risparmino l’agonia. Però più realisticamente peggioreremo poco a poco, e sappiamo anche quali passi dovremo affrontare, o meglio corriamo ragionevolmente il rischio di dover affrontare. Sarà meglio parlare di cure palliative con l’individuo che presumibilmente ce le dovrà somministrare, quando ancora, sia figlio, sia coniuge, sia badante, sente la nostra voce e considera ancora attendibile il nostro punto di vista. Il sentiero si farà sempre più impervio.
Sarà meglio che cominciamo a occuparci di cosa sarà delle nostre volontà e del nostro diritto all’auto determinazione, facendo pressione in qualità di malati, perché, liberi di disporre della nostra vita ci sia data facoltà di sottrarci nell’ora della morte al dominio dei due poteri, Stato e Chiesa, che pretendono di possederci e decidere per noi, come il protagonista, uscito infine dal personaggio, ci spiega nell’epilogo.
Nelle ultime pagine, l’avvocato ci spiega che non è possibile mettere in discussione il dovere che ciascuno di noi ha di sacrificare aspetti della propria libertà in vista del benessere della collettività (in questi tempi di isolamento sappiamo bene di cosa parliamo!). Questo non è in discussione.
Tuttavia se condividiamo l’articolo 2 della nostra Costituzione che riconosce come primo diritto fondamentale della persona il diritto alla vita, dal momento in cui la nostra scelta non influenza, non lede, non condiziona la libertà e il benessere altrui, non possiamo negare che la scelta di quando considerare non essere più vita quella che si sta subendo, di quanto ritenere sopportabile il dolore, di come si vuole lasciare questo mondo-quali che siano le proprie convinzioni religiose o filosofiche- non può che essere scelta personale.
Infine: ritengo che impegnarsi per ottenere che siano finalmente messi a punto strumenti legali e medici -normative e buone prassi-che ci accompagnino con dolcezza e attenzione alla fine -che sia da noi considerata una strada senza uscita, un baratro senza fondo o il passaggio ad una realtà superiore non importa-migliorerà la nostra esistenza ora, permettendoci di assaporare con più serenità le felicità che la vita, fino all’ultimo e incredibilmente, ci riserva.
Mi farebbe piacere sentire cosa ne pensate voi.
Il Presidente
Brigida Zumbo